Sto male!Sono matto?

All’inizio della strada universitaria, quando decisi di iscrivermi alla facoltà di Psicologia, molte persone mi dissero: “Ma così curerai i matti!”, e questa frase la sento arrivare ancora oggi.E’ una concezione profondamente radicata nella nostra cultura:se sto male, quel male che non è fisico e quindi ritrovabile nel corpo, riconosco di avere qualcosa che non va, ma se chiedo aiuto per questo malessere, allora si, sarei matto.Come se “condividere”, “tirar fuori” il disagio psichico lo rendesse visibile ai propri occhi e giudicabile da quelli altrui.
C’è da soffermarsi su come concepiamo e trattiamo il dolore della psiche.
Immaginiamo una tempesta che arriva e che rimane nel nostro animo, a volte potente, in altre una leggera e persistente pioggiarellina, quel tanto da renderci tristi costantemente.
Sentiamo ondate di emozioni poco definite, che ci portano alla deriva senza poterci fare nulla.Noi sentiamo tutto questo, ma ce ne vergognamo.Non possiamo parlarne, perchè “come descrivere un qualcosa che non riesco neanche io a definire?”, e se non trovo una spiegazione, un riscontro tangibile, allora sono matto.
C’è la presenuzione errata che se qualcosa ci accade senza il nostro controllo, questo vuol dire follia.Ma c’è una verità su cui si fonda la psicologia del profondo: noi conviviamo con l’inconscio, che ha vita propria, ed agisce parallelamente alla coscienza.Può inviarci segnali, sintomi, sogni, allucinazioni e voci, nei casi gravi psichiatrici.Esiste!Abbiamo perso il rispetto per ciò che non si può conoscere appieno, per il mistero, pensando e cercando di avere potere su ogni cosa.Nell’antichità greca e latina, le nostre radici, molto era riconducibile agli Dei, era quell’accettare con saggezza i propri limiti.
Ecco questo manca quando emerge un disagio psichico:l’accettazione dei propri confini.Non si accettano la mancanza di forza, le emozioni “negative” come la tristezza e l’angoscia, la confusione riguardo il non capire che succede.”Non posso essere debole”è la frase che sembra riecheggiare in chi rimane bloccato senza fare nulla.
Tutto ciò che ci sfugge dalle mani è etichettato come folle.Ma quello che non mettiamo in figura sono le nostre parti più vere e reali, che poco hanno a che fare con l’immagine di potenza che cerchiamo di mostrare con orgoglio.Il malessere psichico ci induce ad integrare le nostre verità, e non arriva mai con lo scopo di ferire, ma di farci aprire una feritoia semmai, come direbbe Carotenuto.
Quando ci definiamo matti, operiamo la stessa condanna che la legge 180 ha cercato di affrontare: releghiamo le nostre parti sofferenti come fossero pazienti psichiatrici, via, lontano dagli occhi, chiuse nelle “camicie di forza”; “tutto ciò che dicono non ha senso, cosa ci entro in contatto a fare?”
E’ violento questo, operiamo violenza su noi stessi quando ci chiudiamo dentro e buttiamo la chiave.E’ importante aprire le porte, cercando di cambiare la visione di forza illusoria, sintomo questo di debolezza.
Chiedere aiuto è uscire fuori, è iniziare ad allentare la presa, è potersi lasciar andare, è darsi il permesso di essere autentico/a.

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Di |2016-10-30T10:43:17+01:00Marzo 17th, 2016|Commenti disabilitati su Sto male!Sono matto?

Sto male!Sono matto?

All’inizio della strada universitaria, quando decisi di iscrivermi alla facoltà di Psicologia, molte persone mi dissero: “Ma così curerai i matti!”, e questa frase la sento arrivare ancora oggi.E’ una concezione profondamente radicata nella nostra cultura:se sto male, quel male che non è fisico e quindi ritrovabile nel corpo, riconosco di avere qualcosa che non va, ma se chiedo aiuto per questo malessere, allora si, sarei matto.Come se “condividere”, “tirar fuori” il disagio psichico lo rendesse visibile ai propri occhi e giudicabile da quelli altrui.
C’è da soffermarsi su come concepiamo e trattiamo il dolore della psiche.
Immaginiamo una tempesta che arriva e che rimane nel nostro animo, a volte potente, in altre una leggera e persistente pioggiarellina, quel tanto da renderci tristi costantemente.
Sentiamo ondate di emozioni poco definite, che ci portano alla deriva senza poterci fare nulla.Noi sentiamo tutto questo, ma ce ne vergognamo.Non possiamo parlarne, perchè “come descrivere un qualcosa che non riesco neanche io a definire?”, e se non trovo una spiegazione, un riscontro tangibile, allora sono matto.
C’è la presenuzione errata che se qualcosa ci accade senza il nostro controllo, questo vuol dire follia.Ma c’è una verità su cui si fonda la psicologia del profondo: noi conviviamo con l’inconscio, che ha vita propria, ed agisce parallelamente alla coscienza.Può inviarci segnali, sintomi, sogni, allucinazioni e voci, nei casi gravi psichiatrici.Esiste!Abbiamo perso il rispetto per ciò che non si può conoscere appieno, per il mistero, pensando e cercando di avere potere su ogni cosa.Nell’antichità greca e latina, le nostre radici, molto era riconducibile agli Dei, era quell’accettare con saggezza i propri limiti.
Ecco questo manca quando emerge un disagio psichico:l’accettazione dei propri confini.Non si accettano la mancanza di forza, le emozioni “negative” come la tristezza e l’angoscia, la confusione riguardo il non capire che succede.”Non posso essere debole”è la frase che sembra riecheggiare in chi rimane bloccato senza fare nulla.
Tutto ciò che ci sfugge dalle mani è etichettato come folle.Ma quello che non mettiamo in figura sono le nostre parti più vere e reali, che poco hanno a che fare con l’immagine di potenza che cerchiamo di mostrare con orgoglio.Il malessere psichico ci induce ad integrare le nostre verità, e non arriva mai con lo scopo di ferire, ma di farci aprire una feritoia semmai, come direbbe Carotenuto.
Quando ci definiamo matti, operiamo la stessa condanna che la legge 180 ha cercato di affrontare: releghiamo le nostre parti sofferenti come fossero pazienti psichiatrici, via, lontano dagli occhi, chiuse nelle “camicie di forza”; “tutto ciò che dicono non ha senso, cosa ci entro in contatto a fare?”
E’ violento questo, operiamo violenza su noi stessi quando ci chiudiamo dentro e buttiamo la chiave.E’ importante aprire le porte, cercando di cambiare la visione di forza illusoria, sintomo questo di debolezza.
Chiedere aiuto è uscire fuori, è iniziare ad allentare la presa, è potersi lasciar andare, è darsi il permesso di essere autentico/a.
 

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Di |2016-10-30T10:43:22+01:00Marzo 17th, 2016|Senza categoria|0 Commenti

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