Il colloquio psicologico: non una semplice chiaccherata

La psicoterapia ed il colloquio psicologico, sono fondati sulla parola, cioè sulla comunicazione che avviene tra paziente e psicoterapeuta.

Ma cosa distingue questo scambio dalla semplice chiacchierata tra amici o conoscenti?

E come può il parlare essere fondamentale per intervenire su un malessere psicologico?

Parlare è raccontarsi

Nella stanza di analisi, parlare significa raccontarsi e presentare il proprio essere al mondo allo psicoterapeuta.

Si decide di entrare in questa situazione spinti da un disagio interiore.

Spesso per la prima volta si cerca di comunicare ad un professionista ciò che segretamente si è conservato dentro senza averlo espresso a nessuno e forse neanche a sè stessi

La comunicazione in psicoterapia

Questo già determina una grande differenza rispetto la comunicazione che può avvenire nel quotidiano:

le difficoltà, i segreti, l’inconfessabile vengono dispiegati “fuori da sè”, e spesso, per la prima volta.

L’idea che frequentemente si associa quando le persone scelgono di fare questo passo , è che un estraneo può aiutarle perchè non giudicherà quanto hanno da dire, e perchè, non avendo una relazione con lui, non si rischia nulla. (reazioni di rabbia, derisione, svalutazione, delusione, freddezza ecc).

Tuttavia, nonostante l’ idea che l’assenza di legami possa  giovare al proprio caso,  il parlare di sè  intesse immediatamente una intimità da cui nascerà e si costruirà  una relazione terapeutica.

La relazione terapeutica

La relazione terapeutica  si differenzia da tutte le altre perchè una parte, lo psicoterapeuta, non entrerà nello spazio condiviso con tutto il suo mondo, ma quel tanto per permettere al paziente di vedere la sua immagine riflessa, e vedersi con gli occhi del terapeuta.

Lo psicoterapeuta si creerà infatti un’immagine della persona che ha davanti,  che via via acquisirà sempre più sostanza.

Egli  ascolterà  la storia del paziente  ed suoi vissuti,  ma  saprà andare anche “oltre” le parole dette, cogliendo le sfumature, il tono della voce, la postura, gli sguardi, le espressioni sfuggenti, tutto ciò che normalmente passa inosservato, ma che fa parte del modo di esprimersi della persona.

Il tono basso della voce ed il corpo privo di vitalità della persona depressa per esempio , possono comunicare  tante cose al terapeuta oltre ciò che viene “detto”.Partendo da ciò che il paziente esprime e da come lo fa, Il terapeuta inizierà anche a fare riflessioni su di lui, collegando elementi della sua vita che possono portare a nuove prospettive di veduta.

La comunicazione tra paziente e terapeuta

La comunicazione tra paziente e terapeuta diviene allora imprenscindibile per fare psicoterapia  perchè grazie ad essa il paziente prenderà contatto con  le sue “note al margine”, che  insieme a visioni nuove,  andranno a  costruire nella sua mente un’immagine di sè più integra e consapevole, tanto da vedersi per ciò che è, che era e che potrebbe essere e decidere di apportare un cambiamento.

 

La terapia fondata sulla parola presuppone una relazione

La terapia fondata sulla parola presuppone dunque una relazione che si approfondirà nel tempo.
Quanto entriamo in relazione con qualcuno, portiamo il nostro modo di entrare in contatto, frutto delle relazioni significative vissute in precedenza.

Chi, per esempio, non è stato sostenuto a sufficienza  nella sua vita, chi non ha trovato amore, affettività ed empatia,  è sopravvissuto imparando a fare da sè, a non chiedere aiuto a nessuno, ad investire sulla sua forza, senza concedersi il rischio di un appoggio su qualcuno.

Questo verrà portato inevitabilmente anche nella relazione con lo psicoterapeuta, il quale farà non poca fatica a costruire un legame di fiducia nel quale permettere al paziente di lasciarsi andare e sperimentare il suo bisogno di sostegno.
Questo tipo di persona “agisce” il suo modo di essere,  senza sapere perchè e come, senza averci mai fatto un pensiero ed aver soprattutto sentito “come sta” escludendo l’altro.

Il terapeuta, rimandando  ciò che sente (per esempio una sensazione di rifiuto verso ogni cosa che dice o fa) e stimolando una riflessione al riguardo, apporterà nuovi elementi al posto dell’abitudine, e ciò inizierà a costruire un cambiamento nella propria interiorità.

Si può aver imparato a combattere, vivendo una vita perennemente in guerra, ma in fondo, quel bambino o bambina che ha imbracciato il fucile prematuramente, conserva il suo bisogno di pace e di cure, che non contempla attacchi o difese, ma una semplice esserci che chiede presenza.

Lo psicoterapeuta cerca di esserci, sempre (o almeno dovrebbe) contenendo i meccanismi di difesa del paziente, rimanendo centrato su ciò che sente al di sotto: quella vitalità tenacemente protetta che forse ha bisogno di esprimersi, più che essere chiusa a chiave.

Un racconto di lavoro sul campo

Anni fa ho lavorato in una casa famiglia per adolescenti provenienti da gravissime situazioni di vita. Ragazzi con  genitori incapaci, tossicodipendenti, abusanti.
Le ferite che ho visto in questi giovani adulti erano profonde.  Spesso il loro modo di entrare in relazione era fatto di violenza e rabbia.

All’epoca ero una psicologa con le mansioni di operatrice, con turni di 24 ore. Era molto difficile vivere in questo clima per tanto tempo. Rimanere concentrata su “ciò che c’ era dietro la violenza”, tuttavia, mi faceva  scorgere la sofferenza che veniva espressa in quel modo. C’ era una  richiesta di esserci, di non soccombere alla rabbia. “Rimanere” integra  restituiva un senso del limite, quello che i ragazzi non avevano mai sperimentato.

Ricordo un ragazzino, minuto e vispo, che tentava di fare il duro, facendo lo sbruffone, provocando in continuazione attraverso insulti e trasgressioni. Tuttavia, aveva costruito la sua maschera facendo intravedere pienamente i suoi occhi,  carichi di tenerezza e bisogno d’affetto.
Il ” ragazzino-bambino” era stato visto! Questo creò un legame   che non curò certo le sue mancanze, ma almeno gli fece sperimentare la possibilità di una vicinanza.

Winnicott,  il grande psicoanalista inglese,  aveva constatato quanta vitalità c’era espressa nella rabbia di ragazzi adolescenti durante la guerra: deprivati delle loro figure di attaccamento, davano voce alle loro ferite immense attraverso l’energia della rabbia,  la quale esprimeva bene la distruzione vissuta internamente. Portarla fuori significava non morire dentro!

La casa famiglia non è il contesto di una psicoterapia. L’esempio portato, d’ altronde, rende bene cosa significa sentire ciò che viene portato nella relazione e cosa può accadere se gli si dà un significato.

La Psicoterapia è fondata sulla parola e sulla relazione

La psicoterapia dunque è una terapia fondata sulla parola.

Alla base del parlare vi è una relazione.

La relazione terapeutica permette di elaborare il proprio passato con consapevolezza. Sperimentare quanto vissuto in terapia, inciderà sul proprio presente e futuro.

L’esperienza dell’essere stati visti ed ascoltati,per esempio,  si può riprodurre fuori dalla stanza di analisi, durante ed alla fine del percorso terapeutico. Come?  Facendosi vedere ed ascoltare!

Quando finisce la psicoterapia

Nel momento in cui  la relazione con lo psicoterapeuta finisce, si è soli dinanzi  alla vita.

Il legame terapeutico, però,   ci ha  nutriti  a tal punto da renderci autonomi e capaci non solo di affrontare la vita, ma anche di gustarla. Si va via con un senso di fiducia e calore.

 

Dinanzi ad uno psicoterapeuta è  importante avere a mente la profondità della relazione terapeutica che ho tentato di descrivere in questo scritto.

Se si decide di andare da un professionista con l’idea di fare una chiacchierata, forse state mettendo in atto uno dei modi che vi portano già fuori da uno scambio profondo. Se invece state cercando un aiuto, rischiando di farvi vedere da un terapeuta, vi state già sedendo sul divano o sulla poltrona con più peso, con l’idea di rimanerci per cercare di apportare un cambiamento nella vostra vita.

E far entrare un altro nel proprio mondo interno è già una rivoluzione!

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