Il Disturbo Ossessivo-Compulsivo o DOC: prigione e possibile liberazione

Il Disturbo Ossessivo-Compulsivo o DOC ci conduce in un mondo fatto di estrema angoscia e sofferenza, dove pensieri, immagini, impulsi  ed azioni devono essere presenti e ricorrenti, deprivando  della libertà di poter pensare o agire in modo autonomo.
Le persone che vivono tale disturbo sono vittime di una interiorità che sembra volerle perseguitare ed il paradosso, è che esse si sentono cattive, colpevoli per ciò che pensano, sentono, vedono o compiono. Un senso di condanna di sè che emerge pur riconoscendo  i sintomi “egodistonici”, ossia non in armonia con il proprio essere, come fossero provenienti da una parte interna estranea.
La distanza tra sè ed i propri sintomi diviene allora fonte di disperazione, perchè ci si sente in balia di forze di cui non si ha alcun controllo,  a volte anche violente per ciò che costringono a sentire e a fare.
Vediamo nel dettaglio come si presenta un Disturbo Ossessivo-Compulsivo e come agisce.
Il Disturbo Ossessivo-Compulsivo inizia a comparire solitamente in età giovanile (postadolescenziale) ed è  costituito da ossessioni e compulsioni.
Le ossessioni  si presentano con  pensieri, impulsi, e immagini persistenti che si differenziano da eccessive preoccupazioni per la vita quotidiana,  perchè gli  elementi psichici di cui sono composti sono vissuti come intrusivi ed inappropriati,  egodistonici appunto.
Il termine ossessione deriva dal latino e significa “Assedio”. Questa parola ci dà un’immagine appropriata del mondo ossessivo: la persona è assediata, posseduta da pensieri, idee ed immagini che la occupano senza poterle eliminare con la propria volontà.
I pensieri ossessivi rimangono nella coscienza nonostante gli sforzi per allontanarli, dato il loro carattere assurdo o per il senso di colpa che generano:
“Ci può essere il pensiero (il  timore) di fare del male , (…)  l’idea, inarrestabile, di fare operazioni aritmetiche: di contare, di sottrarre, di moltiplicare, di sommare in un’escalation emozionale senza fine che porta ad una spossatezza e a un’esauribilità dolorose.” (Eugenio Borgna in “Le figure dell’Ansia, 2011).
Ci potrebbero essere  parole  che non si vorrebbero pensare,  o immagini terrificanti e scabrose che non si vorrebbero vedere, che continuano invece a persistere nel campo della coscienza come fossero parassiti.L’ansia è molto alta sia quando si tenta di allontanare questi contenuti disturbanti , che quando ci si abbandona ad essi.
Gli impulsi ossessivi si presentano invece attraverso la volontà  impetuosa di compiere un gesto, per esempio con un voler  fare o  farsi del male. (Es.  prendere un coltello o buttarsi da una finestra).
Potete comprendere quanta sofferenza si possa avvertire nel momento in cui si è “presi” da tali impulsi, e nello stesso tempo, con tutte le proprie forze, si tenta di allentare la presa, divincolandosi come si può. Generalmente, tali impulsi non vengono quasi mai portati a compimento, ma la lotta per non soccombere ad essi  porta allo sfinimento, alla vergogna, al sentirsi deprorevoli e  mostruosi.
Il modo di essere al mondo di chi vive un Doc ed in sostanza, il mondo ossessivo, è fatto di
“sguardi velenosi e stregati dell’angoscia, dell’inquietudine, dello sgomento, del terrore, della nausea.(…) In questo mondo non ci sono più cose ovvie e cose inermi, e docili, ma solo figure scarnificate dell’ angoscia  e dalla preoccupazione,  dalla mancanza di quiete e di silenzio.Questo , ovviamente quando le esperienze ossessive si accentuano e si incendiano, s-latentizzandosi.” ( Borgna, 2011).
V. E. Von Gebsattel paragona il mondo ossessivo  ad uno scenario che si trasforma da  ” una verde distesa  di prati che invita alla quiete e alla distensione (alla nostalgia e al raccoglimento)”,  ad uno in cui “sentiamo risuonare il sibilo velenoso di una serpe” e tutto ” (…) cambia improvvisamente e radicalmente: alla dolcezza e alla quiete si sostituiscono l’angoscia e lo spavento”.  (Borgna, 2011).
Un DOC può presentarsi quindi  attarverso sintomi che si avvertono e rimangono “dentro di sè”, o attraverso delle  compulsioni che spingono a fare qualcosa “fuori da sè”, tenendo comportamenti ripetitivi ( Es. Lavare le mani, riordinare, controllare) o azioni mentali ( pregare, contare, ripetere parole mentalmente) che la persona deve  mettere in atto in risposta ad un’ossessione , a regole che deve applicare rigidamente  per ridurre un disagio o per prevenire situazioni temute.
Il legame tra l’azione e ciò che si vuole evitare nel compierla,tuttavia, non ha un fondamento realistico e risulta eccessivo. La compulsione può assumere il carattere di un rituale che se compiuto alla perfezione porta alla purificazione, alla salvezza, alla prevenzione di un pericolo. Percorrere un tratto di strada compiendo esattamente un tragitto, o con un numero esatto di passi, senza calpestare nulla, perchè se si fa  questo si trascorrerà una giornata senza che accada nulla alla propria persona , può essere un esempio di compulsione.
Ossessioni e compulsioni devono incidere notevolmente sulla quotidianità per poter effettuare una diagnosi di DOC, per esempio facendo perdere più di un’ora al giorno, ed intaccando altre aree dell’esistenza (lavoro, scuola, relazioni sociali).
Un DOC sembra emergere in corrispondenza di eventi stressanti della vita, o in fasi dell’esistenza molto delicate, dove c’è una transizione tra vecchi e nuovi equilibri.
E’ stato riscontrato per esempio che un DOC può presentarsi  durante una gravidanza, a seguito di un parto prematuro o dopo aver subito un aborto spontaneo.
Perchè può emergere un DOC in corrispondenza di stress o eventi simili?
Proviamo a seguirne la logica.
Vivo un qualcosa che mi provoca dolore, pressione,  ansia, paura, qualcosa che in sostanza mi fa vivere forti emozioni che per qualche ragione non riesco a controllare, nè a gestire e a vivere pienamente. Inconsciamente, “incanalo” allora l’angoscia in ossessioni e compulsioni il cui effetto sembra essere quello di “sottrarmi” dal mondo esterno per rinchiudermi in  quello interno, dove vivo qualcosa di terribile, ma che è dentro di me, ed in qualche modo più gestibile rispetto al fuori.
Ritirarsi da ciò che si avverte intollerabile è una difesa volta a proteggersi, ma pagando il prezzo di una sofferenza che nel DOC sembra essere senza fine.
Nell’ottica di vedere il DOC come una difesa da qualcosa, particolarmente significativa risulta essere l’idea del “Sistema di autucura” che si attiva per gestire gli effetti di un trauma, descritto dall’analista junghiano Donald Kalsched.
Per sopravvivere ad un trauma, un abuso per esempio in età infantile, o ad un trauma cumulativo, come potrebbe essere una deprivazione affettiva protratta nel tempo, il bambino, che non può allontanarsi dalla situazione traumatizzante, opera una scissione interna, una dissociazione a seguito della quale l’esperienza intollerabile viene divisa in pezzi che verranno poi distribuiti nella mente e nel corpo, affinchè risulti impensabile, indicibile, e non sentibile. L’emozione provata viene separata dalla cognizione  per esempio, o parti del corpo si irrigidiscono in contratture croniche. Il bambino che non riesce a fuggire, si ritira ugualmente dal mondo in questo modo, ma lo fa dall’interno.
Il trauma non raggiunge quindi la coscienza e non annienta con la sua carica distruttiva.
Il sistema di autocura rimarrà sempre in allerta affinchè lo spirito individuale rimanga inviolabile. Se, nel corso della vita, una persona o una situazione verranno avvertiti come pericolosi, il sistema di autocura si attiverà nuovamente, per esempio sottoforma di ossessioni e compulsioni che allontanano dal mondo.
Cosa può essere avvertito come pericoloso?
Per esempio le relazioni intime. Se si ha avuto in passato  l’ esperienza di figure significative che hanno tradito, che non  hanno amato, o che hanno usato violenza, le relazioni intime successive potranno essere vissute come pericolose, perchè sarebbe  terribile rivivere l’esperienza di amare o di avere il bisogno di essere amati senza trovare un soddisfacimento, e peggio, il contrario dell’amore.
Nella mia esperienza clinica, molto spesso ho potuto riscontrare la presenza dei sintomi di un DOC e la loro accentuazione in corrispondenza di relazioni potenzialmente nutrienti, ma a seguito dei propri vissuti interni, percepite come distruttive per sè.
La violenza di certe immagini, di certi pensieri ed impulsi sembrano avere lo scopo di distogliere l’attenzione da tali significati, e di gettare la persona lontano, via da ciò che può essere rischioso vivere.
Cosa fare?
Una cosa molto utile è cercare di non soffermarsi sul CONTENUTO dei sintomi, quindi di rallentare il processo di condanna e colpa, per soffermarsi invece sulla loro possibile FUNZIONE. Toccare , per esempio, come si vivono le relazioni e  cosa rievocano, instrada verso le ferite subite ed anestetizzate.Sentirle vuol dire curarle finalmente!
La psicoterapia, per sua natura, offre un terreno dove la relazione terapeutica può accogliere tali vissuti, offrendo inoltre un “mondo esterno” da cui forse si può imparare a non fuggire, cercando di rimanere presenti e non più soli nel proprio mondo interno ossessivo.
Parlare di ciò che si vive dentro è già un modo per far entrare qualcosa di nuovo in questo scenario, per far entrare soprattutto qualcuno che possa accompagnare alla fonte di tutta la carica psichica usata per generare le ossessioni e compulsioni.
Ricordo l’esperienza con una persona che ho seguito per alcuni anni, all’inizio terrorizzata dai propri sintomi ossessivi, sfinita, sempre in bilico tra il combattere e l’abbandonarsi all’angoscia senza più forze.Ricordo il nostro essere state in due al cospetto di questo mondo “infernale”.Di come la stessa relazione terapeutica era spesso vissuta con sospetto e paura all’approsimarsi dell’intimità, di quel sentire insieme, fonte di commozione ed empatia.Accanto alla diffidenza, ben presto arrivarono i racconti delle ferite, del dolore subito, della tristezza che rendeva tutto grigio ed opaco.L’essere state in due ha creato una discontinuità, una fessura da cui forse questa persona ha potuto vedere “un fuori” rassicurante e vitale, ed “un dentro” fatto di colore e gioia per la vita, di uno spirito che era rimasto inviolato nonostante tutto e che forse si poteva proteggere in modi più sani, volti a farlo esprimerle, piuttosto che tenerlo prigioniero.
Questo può accadere una volta compreso il senso dei sintomi, delle difese, una volta rinarrata la propria storia.Liberarsi da una prigione per entrare, o ri-entrare,  nell’esistenza.

Riferimenti Bibliografici:

Eugenio Borgna,(20011), “Le figure dell’Ansia”, Feltrinelli, Milano.

Glen O. Gabbard, (2002), “Psichiatria Psicodinamica”, Raffaello Cortina Editore

Donald Kalsched, (2001), “Il Mondo interiore del trauma”, Moretti e Vitali, Bergamo.

Nancy McWilliams, (1999), “La diagnosi Psicoanalitica”, Astrolabio, Roma.

DSM-IV-TR (2002), “Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali”, Masson, Milano.

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